lunedì 9 luglio 2007

I miti fondatori della società multirazziale



di Raffaele Ragni (Rinascita, marzo 2007)

Tra i miti fondatori della società multirazziale il più noto è quello del melting pot. L’espressione significa letteralmente pentola di fusione ed è usato nel linguaggio comune, oltreché nella storiografia americana, per indicare quel processo di mescolanza tra razze e culture diverse che dovrebbe far nascere un nuovo tipo umano. L’immagine serve a descrivere il fenomeno che in parte è avvenuto negli Usa, ma soprattutto a prescrivere ciò che, in linea di principio dovrebbe avvenire, sia negli Usa che nel mondo. E’ dunque un termine al tempo stesso descrittivo e prescrittivo, che richiama un aspetto della storia americana e caratterizza uno dei modelli sociali più funzionali al sistema mondialista.
La sua origine è nel titolo di un opera teatrale - appunto The Melting Pot - scritta da Israel Zangwill nel 1909 e rappresentata con grande successo nelle principali città americane. A New York tenne addirittura il cartellone per 136 rappresentazioni. In essa veniva drammatizzata, e resa accessibile ad un vasto pubblico, una situazione che riguardava milioni di immigrati. Il protagonista è un giovane immigrato ebreo di nome David, fermamente convinto che, giunto in America, l’immigrato debba rinunciare al suo passato. La sua famiglia è stata massacrata in un progrom antisemita in Russia ed egli, che è un musicista, sta componendo una grandiosa sinfonia che dovrà esprimere musicalmente l’idea di un’armoniosa convivenza tra sradicati di origine diversa.

Il giovane musicista ebreo s’innamora di Vera, un’assistente sociale anche lei di origine russa ma di religione cattolica. Tale diversità non costituisce un ostacolo al loro amore finché David non scopre che il padre di Vera è l’ufficiale russo che fece massacrare la sua famiglia. Dapprima la lascia ma poi, visto il successo della sua sinfonia, decide di tornare da lei. L’opera termina con David e Vera felicemente abbracciati che inneggiano alla mescolanza razziale mirando in lontananza la statua della libertà illuminata dal sole al tramonto.

Nei dialoghi il giovane David usa ripetutamente l’espressione melting pot riferendosi all’America come “crogiuolo di Dio, la grande pentola di fusione dove tutte le razze d’Europa si fondono e si riformano”. Afferma inoltre che “il vero americano, la fusione di tutte le razze, il futuro superuomo” non ha fatto ancora la sua comparsa, ma si trova ancora informe nell’impasto della grande pentola che frattanto bolle assiduamente per volere di Dio, il grande alchimista. Da questa mescolanza, dovrebbe nascere un nuovo popolo eletto, appunto gli Americani, che avrebbero instaurato, dovunque nel mondo, “la futura repubblica dell’uomo”.

Israel Zangwill ha il merito di aver inventato il termine melting pot nel 1909, ma l’idea che l’identità americana nascesse dalla mescolanza etnica era stata già espressa nel 1782 da un immigrato francese - un certo Hector St.John de Crévecour, autore del libro Letters from an american farmer - secondo cui individui di tutte le nazioni, melted sul suolo americano fino a formare una nuova razza umana, avrebbero imposto in tutto il mondo una nuova civiltà. Per Zangwil i matrimoni misti sono di fondamentale importanza. Invece per de Crévecour basta l’influsso dell’ambiente, la convivenza di razze diverse su di un’unica terra. A caratterizzare l’americano non sarebbero quindi il meticciato biologico o il sincretismo religioso, ma un sistema di valori ed uno stile di vita peculiari.

Un altro mito fondatore della società multirazziale, più realistico del melting pot, è quello della
salad bowl. L’espressione significa letteralmente scodella dell’insalata ed è usato per affermare il diritto di ogni immigrato di conservare la sua identità culturale e religiosa, anche se in contrasto con quella prevalente nella nazione ospite. Come le diverse verdure mischiate in un’insalatiera non perdono il loro sapore originario anche se vengono condite tutte allo stesso modo, così gli immigrati non devono farsi assimilare dalla cultura e dalla religione dei nativi anche se tutti sono governati da unico ordinamento giuridico.
L’immagine, alquanto recente, della salad bowl richiama il concetto di cultural pluralism definito fin dal 1924 da un immigrato tedesco - un certo Horace M.Kallen, autore di una raccolta di saggi intitolata Culture and democracy in the United States - secondo cui ogni immigrato deve conservare le usanze del suo Paese di origine donandole alla collettività d’approdo nella sua integrità, senza dissolverle nel grande calderone americano. Questo sarebbe l’unico modo di prevenire la totale alienazione dell’individuo in un società sempre più industrializzata e conformista.

Più che una critica all’idea di Zangwill, quella di Kallen è una presa d’atto, estremamente realistica, dell’impossibilità di instaurare in tempi brevi una società multirazziale fondata sul meticciato ed il sincretismo religioso.
Malgrado possano sembrare alternativi, i due modelli sono complementari. La salad bowl prepara il melting pot, ma senza collocarsi in successione temporale. Ciò significa che la società multirazziale si ispira all’utopia della mescolanza, ma si realizza nell’immediato conservando la differenziazione. Entrambi i modelli presuppongono la disintegrazione del legame di ogni uomo con la sua terra. L’immigrato deve rinunciarvi, il nativo deve cederla. Ma la salad bowl, ed è questo il vantaggio per gli equilibri del sistema mondialista, consente al migrante sradicato di sentirsi tale fino al momento in cui non senta più il bisogno di radicamento.
Dal punto di vista dei nativi - cioè del popolo che è posto di fronte all’alternativa se accogliere o respingere gli immigrati, in tutto o in parte - l’erosione dei contenuti e del sentimento della propria identità nazionale avviene comunque, qualunque modello si applichi. La perdita d’identità appare irreversibile più secondo l’idea del pluralismo - che ghettizza identità castrate ed esclude a priori ogni ipotesi di assimilazione culturale degli allogeni - invece che secondo l’idea della mescolanza - che consente sempre l’integrazione con popoli della stessa religione e dello stesso ceppo razziale, anche se di diversa cultura ed etnia.
In generale, le differenze che creano maggiori conflittualità sono quelle religiose, soprattutto se gli immigrati si comportano da integralisti perpetrando usanze disumane (es. l’infibulazione) o praticando riti satanici (es. il woodoo).
Nella realtà concreta i due miti fondatori della società multirazziale - il melting pot e la salad bowl - agiscono entrambi sull’immaginario collettivo consolidando l’idea che le identità nazionali sono destinate a dissolversi, che non c’è alternativa alla globalizzazione, che un unico governo mondiale finirà per dominare un’umanità omologata da valori cosmopoliti. I due modelli sociali, per nulla alternativi l’uno all’altro, si integrano perfettamente. Il folklore sopravvive nei ghetti ed il sincretismo religioso genera un ateismo pratico.
Ma la realtà dell’immigrazione non è quella teorizzata dagli apologeti della società multirazziale. Ciò vale sia per i migranti che per i nativi. E’ un dramma, sia nostro che loro.
Il fenomeno tuttavia serve agli equilibri del sistema mondialista. Innanzitutto consente ai governi del Terzo mondo di espellere masse di impoveriti in modo da ridurre la spesa sociale in conformità alle politiche di aggiustamento strutturale imposte dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale. In secondo luogo consente alla classe imprenditoriale dei Paesi di approdo di contenere il costo del lavoro, giacché aumenta la massa di proletari disposti a farsi assumere per pochi soldi pur di sopravvivere. Infine consente alle multinazionali del largo consumo di trovare dovunque nel mondo le stesse tipologie di potenziali acquirenti ed offre ai globalisti l’opportunità di affermare che la mondializzazione dell’economia è un fenomeno inarrestabile.

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